domenica 18 settembre 2011

L'ineffabile ilarità della metonimia

Tutti voi sarete immagino familiari con il concetto di "dissonanza cognitiva", elaborato da Festinger nei lontani anni '50. Se non lo siete, pazienza, tanto è solo uno di quei nomi semi-comprensibili, di cui è piena la sociologia, che servono a descrivere situazioni ovvie e familiari a tutti, solo con un'aura di sapienza attorno.

Bene, per capire il concetto di cui sopra, immaginatevi di essere a un funerale e - durante la cerimonia - a un certo punto sentite il sobrio silenzio venire rotto da un gruppo di persone che ridono a crepapelle. Ecco, quella che state provando è la dissonanza cognitiva. Oppure, per cambiare esempio, immaginatevi di essere andati ad assistere a uno spettacolo comico e trovarvi a sentir parlare degli "otto tipi della metonimia"... Ma andiamo con ordine.

Ogni anno, a Lund, si tiene la Kulturnatten (che significa "notte della cultura"), un'esuberante manifestazione che quest'anno si è chiusa con un concerto in piazza di un gruppo talmente entusiasta che al confronto i Nirvana sembravano i Righeira.

All'interno di questa manifestazione, questa "notte della cultura" castrata (poiché finisce a mezzanotte, ché si sa - qui in Svezia - è meglio non divertirsi poi troppo...) tutti i colleghi di Ilana si erano trovati concordi nel voler assistere a una specie di competizione fra universitari che si sfidavano a presentare temi scientifici nel modo più "comico" possibile. E io ovviamente non potevo mancare, sebbene già presentissi nell'aria lo sfacelo incipiente, un po' perché già di partenza nutro un certo scetticismo sulla compatibilità fra "umorismi" provenienti da culture differenti, e (molto più) perché rendere "comica" la scienza è operazione ad altissimo rischio che solo pochissime persone possono permettersi di portare a termine senza essere ricoperte di pomodori.

Il pubblico in ansia. Non sa cosa l'aspetta...


Ma veniamo al resconto delle presentazioni "comiche". Il tutto è cominciato con una materia che non sentivo nominare dai tempi di Gorgia di Leontini:

LA RETORICA

La presentazione d'apertura è stata tenuta dal professore di Retorica dell'Università di Lund. Il primo nel suo genere da 200 anni a questa parte, e alla fine abbiamo anche capito il perché. Dunque l'esposto, durato 10 minuti, ha toccato tutte le più importanti forme retoriche che si conoscano (dalla metafora, all'ossimoro, agli 8 tipi della metonimia, al climax) e chissà cos'altro. Ora, io non sono un comico, ma questo tema, coi giochi di parole che consente, si presterebbe ad un approccio umorista... e invece l'unica battuta con cui è riuscito a uscirsene il tapino relatore è stata "un esempio di ossimoro? "Militar Intelligence"!" E peraltro l'ha anche riciclata 3 volte.

Il giudizio dell'aula - unanime - è stato che perfino come lezione universitaria sarebbe risultata pallosa, figuriamoci come spettacolo comico. La sensazione che si provava a star lì a sentire una noiosa relazione di linguistica, spacciata per spettacolo comico, è difficilmente descrivibile. Tutti aspettavamo una battuta, un cenno, una scorreggia, qualsiasi cosa!... qualcuno ipotizzava "finirà che gli tirano una torta in faccia, questo è certo"... qualcuno stava cercando di svignarsela accartocciandosi sotto una sedia, ma le luci accese rendevano palese e vano il suo tentativo. E alla fine niente. Nessuna battuta, nessun rumore corporeo, nessuna torta in faccia. Il niente più assoluto. Quel niente che è senza speranza, non spazio da riempire, ma sconfitta completa. E la sensazione di essere nel posto sbagliato serpeggiava nella sala. Ché gli svedesi sono tranquilli e pacifici, magari molto tolleranti, ma mica scemi, eccheccazzo! E infatti, molti hanno ceduto dopo soli 10 minuti.

Molto di più racconta la mia espressione...

Ma noi no! Noi siamo andati avanti e ci siamo sorbiti anche i secondi 10 minuti e quindi eccoci a parlare de...

L'ACUSTICA

Il secondo pippotto è stato tenuto dal Vicerettore dell'Università di Lund (per il suo ruolo alla fine vergognosamente favorito nelle votazioni e che non si dica che solo in Italia esistono lecchinaggio e prostituzione intellettuale!). Ora, costui, un uomo sulla sessantina, con un ruolo di spicco in ambito accademico, rispettato (credo) e con una famiglia da mantenere non aveva ALCUN bisogno di spacciare per comici i suoi studi sull'elaborazione di un algoritmo per la riduzione del rumore di fondo nei messaggi radio. Nessuna ragione al mondo. Eppure l'ha fatto. La presentazione, durata 10 minuti, ha avuto il suo apex quando su una delle slide sono comparse svariate formule matematiche che illustravano in termini tecnici il processo. Penso che nemmeno il signor Doppler avrebbe trovato divertente l'argomento, magari interessante sì, non dico di no... Comunque, se nel primo intervento si era contata addirittura una battuta, questo secondo è riuscito ancora peggio, perché dell'umorismo promesso non c'era nemmeno l'ombra dell'ombra. E persino la gente aveva ridotto al lumicino le speranze di poter arcuare le labbra almeno per una volta.


Altra emorragia di pubblico e qualche crisi isterica. E noi siamo rimasti per il terzo intervento, riguardante....

L'ETOLOGIA

Ora, bisogna ammettere che questo intervento era di gran lunga il migliore dei cinque, per verve, argomento e presentazione. Oddio, il titolo "come muovere la merda nella giusta direzione" già mi indisponeva, perché sapeva di qualcosa che vuol essere comico a tutti i costi. E l'animale preso in oggetto era (chi l'avrebbe mai detto?) lo scarabeo stercoraro, una delle bestie più sfottute sulla faccia della terra, lui che non chiede altro che andarsene in giro, guardando il cielo, con la sua pallina di escrementi. Che poi è quello che fa la maggioranza della gente, solo che lo fa senza guardare mai lassù.

Dunque, il soggetto era facile, il titolo abilmente concepito, ma dopo il mortorio abissale dei primi due interventi, si è trattato di una boccata d'aria fresca. La ragazza era divertente e spigliata, la presentazione interessante anche da un punto di vista etologico (sapevate che gli stercorari seguono il sole per orientarsi nel cammino e di notte gli aloni della luna?). Quindi va bene, seppur fossimo al minimo sindacale della comicità, la promozione (e la vittoria) erano assicurate per la giovane etologa. Che, comunque, contro il Danilo Mainardi dei bei tempi di Superquark, non avrebbe avuto scampo...

Il grandissimo Mainardi

Ma ora il cammino era in discesa... la presentazione successiva trattava infatti di...

PARAPSICOLOGIA

Dunque, questa lezione era tenuta (come vedete dalla foto) da uno che evidentemente si era ispirato, nel suo concetto di comicità, ai reietti del Colorado Café. Quelli che pensano che basti una giacca luccicante per far ridere. Ecco, lui aveva indossato una giacca cinese di quelle da "Colpo grosso al drago rosso" (o forse più da "Delitto al ristorante cinese") e tanto bastava. La lezione, un'arrampicata sugli specchi a tratti venefica a tratti patetica per dimostrare le basi scientifiche della parapsicologia, si è trascinata per 10 minuti di noia assoluta in cui ogni potenziale comico della materia (e ce n'era...) è stato accuratamente selezionato, ispezionato e ucciso a priori con un colpo alla nuca. Risate? Zero. Divertimento? Ancora meno. Il tutto si è risolto in una letale epistemologia della parapsicologia, con esegesi dei testi dei fondatori, per dimostrare che "dai su, pure noi ci possiamo stare nella scienza, cazzo... se c'è il windsurf alle olimpiadi, perché non noi nell'università?". Ma quello che il relatore impallettato non aveva capito era che nessuno aveva la minima voglia di rispondere alla domanda, né di cacciare dall'Accademia la parapsicologia, sai che ce ne frega... è che tutti stavano con l'occhio sull'orologio pregando per la fine rapida di quei 10 minuti.


Dopo un altro esodo incontrollato di pubblico e qualche scena madre da parte di alcuni orientali, il povero presentatore (un uomo piuttosto noto, pare, sulla Tv svedese, il "Frizzi de noantri", diciamo...) non sapeva più che inventarsi per tenere viva l'attenzione che i relatori avevano così coscienziosamente cercato di uccidere come cecchini. E dire che, almeno lui, era capace e divertente, seppur nelle ristrettezze del suo ruolo. S'è sentito un sospiro di sollievo quando ha chiamato alla "cattedra" l'ultimo relatore, che ci ha parlato di...

CAMBIAMENTI CLIMATICI

Ecco, quest'uomo che aveva un tema di tale peso e levatura, di estrema importanza ma sfigatissimo dal punto di vista "comico", era anche capace di far ridere. Aveva i tempi comici, era ironico e sarcastico. La battuta "DiCaprio tiene molto all'ambiente, si è persino comprato 6 Toyota Prius!", è sicuramente la più divertente che si sia sentita quella sera. Purtroppo però, incastrato fra l'effetto serra e il diossido di carbonio, non ha trovato modo di esprimere la benché minima comicità nel resto dell'intervento, che si è risolto in un deprimente esame corredato di slides e grafici a istogrammi e a torta, di come, se non riduciamo i consumi, finiremo tutti molto male e molto presto. L'incauto relatore ha anche avuto l'ardire di chiedere al gentile pubblico se qualcuno sarebbe stato favorevole a pagare 50 euro in più sui voli Copenaghen-Londra per sfruttare energie alternative e s'è beccato una manciata di gesti dell'ombrello, così, senza mezzi termini.


Per fortuna la serata è finita là. La ragazza dello stercoraro ha vinto senza difficoltà in mezzo a una folla esultante (non per lei, ma per il fatto di poter andare via dopo un'ora di dissonanza cognitiva testata in corpore vili). Bene brava, ma niente bis ti prego. All'uscita ci aspettava un piccolo (e se dico piccolo intendo piccolo) rinfresco: un bel bicchiere d'acqua e ...

...delle fettine di carota fresche fresche!

Si spengono le luci, cala il sipario. Un'altra frizzante e scoppiettante serata svedese si è appena conclusa.


Ah, se state malignando che io sia stato il solo a trovare priva di ogni comicità questa manifestazione, sappiate che la pensavano come me Ilana (dotata di comicità inglese), Lina (svedese), Carolina (portoghese), Kavitha (indiana), Roxsana (iraniana) e altri. Un panel piuttosto eterogeneo.

venerdì 9 settembre 2011

Tetris. Ora vivici dentro!

Ogni tanto su dei vecchi fumetti di Nathan Never vedevo raffigurate delle costruzioni astruse, realizzate (anche graficamente) ai limiti dell'impossibile. E giravo pagina con un senso di fastidio, come se questo spingersi troppo in là con la fantasia della fisica inficiasse la credibilità della storia, e anche i suoi messaggi reconditi e più importanti.

A volte, poi, provavo a ricostruire queste strutture apparentemente impossibili con i mattoncini Lego che avevo in abbondanza per casa. Il risultato era sempre lo stesso: un disastro. Alla minima pressione, torsione o quant'altro andavano irrimediabilmente in pezzi.

Be', oggi scopro che c'è un motivo se non sono diventato un ingegnere. Perché evidentemente quelle strutture straordinariamente protruse nel nulla potevano essere realizzate davvero... Ma sinceramente, voi ci vivreste in questa abitazione che sembra uno di quei pezzi del Tetris che cadevano male e ti facevano innervosire a bestia?


Io no. E nemmeno ci passo sotto, se è per quello...

domenica 24 luglio 2011

Fammelo più frizzante, estivo, solare...


Ogni grafico che (non) si rispetti, nella sua travagliata attività lavorativa sente ripetutamente alcune frasi-chiave che, a scanso di equivoci, gli ricordano l'ingrata professione che svolge. Fra queste si ricordano "voglio il logo più grosso", "cos'è tutto questo bianco? Non si può riempire?", "qui mettiamoci una pubblicità di materassi", "visto che stampiamo a colori, usiamoli!", "fammelo come la pubblicità della Apple, ma con un bel flash giallo con lo sconto", "rimpiazza questa faccia con un cactus". E, ovviamente, la più celebre di tutte: "fammi una grafica frizzante".


I clienti tendono infatti a usare un frasario tratto dall'immaginazione, ispirato da lievi suggestioni, da rimandi concettuali. È infatti prassi comune sentire cose come "vorrei un rosso passione spenta" oppure "mettici un giallo impiastro". O ancora "vorrei un nero ma non troppo scuro". Che dire poi del "bianco acceso"?.

Ecco, detto questo, io non oso immaginare cos'abbiano chiesto i clienti al (povero) grafico svedese che si è dovuto occupare della realizzazione del materiale per l'estate di Lund, la cui copertina vedete in apertura. Probabilmente qualcosa del tipo "Vorrei un colore che si confonda col paesaggio, che non si faccia notare". Oppure "fallo sulle tonalità del verde acqua grigiastra della Rostock sovietica, così diamo l'idea dell'estate".

"AH!... E per l'impaginazione interna, falla di una 'tristezza Pollyanna', così magari poi gli eventi sembrano più belli, dato che uno non si aspetta niente...".

Il tutto, sommato al notorio (e in genere apprezzabilissimo ed elegante) minimalismo della grafica svedese, ha portato ai risultati che vedete. Non so quanta gente sia stata attratta dai manifesti che si confondevano col cielo plumbeo di luglio, ma quel che conta è che il committente fosse contento...

Oddio, visti gli spettacoli in programma, forse in questo caso il cliente non aveva tutti i torti...


martedì 7 giugno 2011

Fino in Norvegia, passando per Capri

Mi piace viaggiare. Viaggiare è educativo, è rilassante, è divertente (e, oserei dire, un tantino adiacente). Apre la mente e fa conoscere cose nuove, per quanto in effetti di "nuovo" ci sia sempre meno, con questa globalizzazione che avanza... signora mia.
Lo scorso weekend lo abbiamo passato nella rinomata zona svedese che va da Göteborg (e non fate i villici, leggetelo Jøeteburi come farebbe Ingmar Bergman e non Ghotebork come Bombolo...) al confine con la Norvegia.


Una parte di costa raffinata, abitata da gente "bene" e da pescatori, un incrocio fra un paesino greco, Portofino e Ladispoli – ma più Ladispoli – senza però potersi fare il bagno. È là che i due mitici bracci di mare del Kattegat e dello Skagerrak, che tante gioie mi diedero sin da quanto alle elementari si faceva nell'intervallo il "gioco della cartina", si intersecano. È là che sorge la seconda città più grande del Regno ed è là che io e Ilana ci siamo rilassati giocando a minigolf come degli undicenni qualsiasi e provando l'ebbrezza di varcare il confine norvegese, come due piemontesi dell'entroterra altrettanto qualsiasi.

Insomma, ci siamo divertiti un sacco a...

...andare in barca verso l'isola meno accogliente dell'universo. Praticamente un sercio ventoso in mezzo al mare.

Un'isola talmente inospitale che Ilana, molto hitckockianamente, non ha perso occasione di farsi attaccare da un gruppo di gabbiani veramente inviperiti.... In ogni caso abbiamo avuto l'onore di vedere il faro che cresce sull'isola più grande (della zona).

Notate in alto a sinistra il gabbiano in picchiata su un'Ilana ormai in fuga

Che dire poi dello spasso di visitare l'ennesimo sito di piccoli menhir "a barca" presenti in Svezia? Sono affascinanti nella loro antichità. Risalgono infatti ben al 600 d.C.... roba che l'Impero romano era già caduto da tipo 125 anni...

Però la luce era molto evocativa

Tutte visite inframezzate da gustosissime (senza ironia) parentesi culinarie a base di crostacei pescati freschi e venduti al dettaglio dai ristoranti...


"Guardate come sono vispo", sembra dire questo scampo

Come capita a tutti i bravi italiani all'estero, a un certo punto la nostalgia ha preso il sopravvento. Ricorderò sempre all'aeroporto di Riga levarsi nel silenzio una voce roca da italiano pensionato in vacanza "CE LO FACCIAMO UN CAFFÈ?" - cui ovviamente seguiva la classica replica femminile "EH MA CHISSÀ COME LO FANNO QUI...". Beh, insomma, anche noi non sfuggiamo a questo provincialismo di maniera e - visto che al confine con la Norvegia c'era un posto che si chiamava Capri - non siamo riusciti proprio ad evitare di farci 90 km per andarlo a vedere. Eccolo qui: se aggiungete alla foto una spiaggetta, un parcheggio e una fazenda disabitata e vagamente inquietante, avete tutto il Capri svedese. Carino però.


Dopodiché, stanchi della monotonia e vogliosi d'avventura, abbiamo deciso di fare un salto in Norvegia. Ma solo un salto e solo uno, perché la Norvegia è al top nella lista dei Paesi più cari al mondo, tanto da far concorrenza a Dubai credo, e l'acquisto anche solo di una Coca cola poteva essere fatale. Le frontiere non ci sono più, ma in compenso c'è un ponte, pretestuosamente messo lì solo per far pagare agli incauti avventori 2,5 euro ad andare e 2,5 a tornare. E così, anche stavolta la Norvegia m'ha fregato...

L'infame casello

...anche se ovviamente ho provato a aggirare l'ostacolo casello, parlando con l'opulento e biondissimo inserviente norvegese, cercando di rifilargli la scusa che avevo sbagliato strada e volevo solo fare inversione (il che alla fine era anche vero). Lui, impassibile, mi ha risposto "Non c'è problema, basta pagare per entrare e ripagare per uscire". Il nordico salace.


Però, appena entrati nella landa di Riise e dei troll, ho scorto un cartello che indicava nei paraggi una "fortress" come punto turistico. E mi sono detto "ah be', almeno ne è valsa la pena d'aver pagato, vedremo una vera fortezza d'epoca medievale norvegese, che si sa che questi ci sapevano fare e non a caso hanno dato vita a tantissime noiosissime leggende...". Dopo aver percorso qualche chilometro – fra lo scetticismo di Ilana sul fatto che io avessi interpretato bene il segnale a seguire cartelli, siamo infine arrivati a vedere la maestosa fortress: un'inospitale prigione di media sicurezza... ma che caz...

L'infame castello

D'altronde la lingua norvegese è pur sempre la lingua norvegese...

Tornati in Svezia, abbiamo fatto a tempo a goderci un caldo tramonto. E se credete che non sia vero che qui il sole cala più tardi che da noi in primavera, beh, considerate che questa foto è stata scattata alle 22.20.


Alla fine la faccia di Ilana, piena di incontenibile gioia, è il miglior riassunto del nostro weekend nordico :)



E, se mi avete seguito fin qui, come bonus track vi appiccico anche due foto carine che ho fatto in quei luoghi. Della prima vado particolarmente fiero :)


mercoledì 4 maggio 2011

Celestiali (e bionde)

*Blink Blink* con le palpebre, bocca semiaperta a trapezio in un sorriso complice, punta del gomito che mi tocca ripetutamente e fastidiosamente il braccio. E poi la fatidica frase "...e così te ne sei andato in Svezia a trovarti la donna eh?". E di nuovo due *blink blink* di ordinanza.

Questa scena, da quando mi sono trasferito qui, si ripete con una preoccupante frequenza. E io tutte le volte a dover spiegare con sorriso ebete e un filo di ansia "no... sai, io sono venuto qui per seguire mia moglie...". E già. Perché io sono probabilmente l'unico essere al mondo che ha seguito la moglie italiana in Svezia, invece di portarsi – come tanti film degli anni '60 e '70 ci insegnavano – la moglie svedese in Italia. Ora che però ho metabolizzato questo fatto – del quale anzi ormai faccio uno stoico e orgoglioso punto d'onore – ho potuto ragionare a mente lucida su quell'ingenua frase e sui suoi significati più nascosti.
È ovvio infatti che quegli ammiccamenti celino e si fondino su un qualche sostrato culturale di intesa reciproca. E, trattandosi di Svezia, questo sostrato non può essere altro che la presunta "figosità" delle ragazze locali, tanto nota da essere ormai antonomastica.

Eh sì, perché noi possiamo anche prenderci in giro e dire che la Svezia è famosa nel mondo per l'Ikea, per la cioccolata e gli orologi (sì, in tanti la pensano così...), per la TetraPak, per le aringhe dolci o per il buon Linneo. Ma sono tutte balle cui fingiamo di credere solo per darci un tono. La verità è una: la Svezia nel mondo è sinonimo di gnocche bionde. E allora, dato che siamo su un blog dedicato alla patria di Anita Ekberg, come evitare di parlare dell'orgoglio nazionale?


Trovandomi in un paese di 110.000 abitanti di cui un terzo abbondante sono studenti universitari – che rendono l'oggetto d'osservazione molto abbondante – parlo da un osservatorio piuttosto privilegiato. Procediamo quindi con questa "analisi della ragazza svedese".

Fenotipo (ovvero, "è davvero gnocca?")
Dunque, la domanda è greve e grave: "È davvero gnocca la ragazza svedese?". Per gli svedesi non sembra esserlo troppo, dato che ci sono abituati. Per i norvegesi non lo so. Per tutti quelli sotto Rostock – generalmente – è una specie di dea incarnata. Cercando di parlarne con distacco (!), le ragazze qui sono molto appariscenti. Abbaglianti direi. Capelli biondissimi, occhi chiarissimi, pelle diafana. È ovvio che risplendano nel buio generale del nord come se fossero fluorescenti. E anche d'estate si fanno vedere...
Mi sono chiesto spesso se questa bellezza sia "oggettiva" oppure dettata dal contrasto con quello cui sono più abituato. Be', considerato che sono qui da oltre due anni e che sono lungi dall'abituarmi, e che – per dire – ci sono altre etnie molto diverse dalla mia che non mi attirano per nulla, tendo a propendere per la via dell'oggettività, conscio di tutti i rischi che questa comporta. Ovviamente sui gusti non si discute e "oggettività" non significa che le ragazze svedesi debbano piacere per forza o che debbano essere preferite, che so, alle cinesi. Ho visto perfino uno svedese stare con una cinese. È altrettanto ovvio che ogni ragazza poi è diversa, ma qui si parla naturalmente di tendenze generali e riconosciute. D'altronde sono un sociologo (ogni tanto) e quindi non potrei agire e pensare diversamente.


Ma, in definitiva quindi, cos'è che rende "belle" queste scandinave? Il punto veramente a favore a mio avviso è il naso. È difficile trovare una svedese con un brutto naso, che solitamente è piccolo e leggermente all'insù. Il che contribuisce a formare quell'impressione "algida" delle ragazze nordiche. Per quanto riguarda le altre caratteristiche, fisicamente tendono a essere asciutte (anche per merito della loro smodata passione per l'attività fisica), atletiche, ma poco prosperose.
I capelli sono praticamente sempre biondissimi o al massimo tendenti al rosso, tant'è che le "alternative" si fanno nere corvine (prevengo la solita becera domanda: in testa. Da altre parti non lo so). Gli occhi azzurri o verdi. Sempre. Le reiette svedesi li hanno marroni. Sarà un caso che la bandiera svedese sia gialla e blu?


Interrelazione (ovvero, "ma la danno?")
Se la domanda di prima era greve, questa la supera. Ma io riporto solo quello che mi viene chiesto a più riprese, a scopo didattico e illustrativo. Chiarisco subito che non so se "la diano" o meno. Io sono un uomo sposato e a certe cose non mi interesso (no?). Per di più mi pare una generalizzazione abbastanza becera trasformare una popolazione femminile intera – solo per via dei già citati film degli anni d'oro del cinema di genere e di qualche spot della Peroni – in un esteso gruppo di zoccole.
In ogni caso penso che "la diano" – come accade in (quasi) ogni parte del mondo – a chi gradiscono. Ma non credo che ci sia una cultura della libertà dell'amore come qualcuno agogna. Anzi. Le svedesi mi vengono raccontate generalmente come donne abbastanza gelose e, seppure aperte di mentalità, assolutamente orientate alla monogamia. Però il campeggio libero c'è davvero (tanto così, per confermare a casaccio un mito svedese).
C'è però da dire che il loro modo di vestire può contribuire alla nomea meno casta. Hanno infatti una vera passione per mettere in mostra le gambe. Lo fanno in inverno, quando ci sono -10°, immaginatevi d'estate. Non resistono a indossare minigonne (veramente mini) o supershort che svelano più di quanto non coprano. E girare per strada in bici è un problema. Caratterialmente le svedesi che ho conosciuto sono educate, disponibili al dialogo e allegre. Anche se di fondo mantengono sempre un rigoroso distacco con l'interlocutore sconosciuto. Ed è molto difficile che siano le prime a stabilire una relazione, foss'anche un semplice "ciao".


Queste caratteristiche ovviamente sono generali, poi esistono svedesi more e sovrappeso, svedesi affettuose e discinte, esiste un po' di tutto, così come accade per le italiane, le greche, le ugandesi. L'unica cosa che posso dire è che è sicuramente meglio che ci sia un tipo in più che uno in meno.

L'ultima osservazione che mi viene da fare - a latere - è che ho notato che se provate a dire "voi svedesi siete veramente carine" oppure "voi italiani siete davvero creativi" oppure "voi svizzeri siete proprio affidabili", nessuno vi taccerà mai di razzismo. Come se il razzismo dipendesse dalla bontà della valutazione e non dall'organizzazione sommaria di una razza in caratteristiche generiche. Ma si sa, ai complimenti nessuno resiste, quindi per lo meno stavolta, eviterò forse la accuse di generalizzazione sommaria. :)

p.s. Un po' di foto le avevo fatte io. Quando la cosa stava diventando pericolosa, ho capito che forse era meglio prenderne un po' dal web...

domenica 27 marzo 2011

Emi...grato di essere italiano


È il più trito dei luoghi comuni e come tale - ovviamente - è vero: quel che più manca dell'Italia quando si è all'estero è il cibo. D'altronde non si tratta di una supposizione tanto profetica. Cos'altro dovrebbe mancare? Il traffico e la colonna sonora dei clacson delle grandi città? Le spire della politica che arrivano ovunque assumendo le forme più disparate, dall'aiuola risistemata fino al Centro Commerciale che nasce spontaneamente nella zona verde pubblica? Le strade dissestate e i servizi quasi assenti? Lo sport, isterico e corrotto? Ecco, quindi rimangono due cose: il clima e il cibo. Ma se il primo vale solo per chi vive a sud di Firenze (dato che l'inverno padano non è molto migliore di quello svedese...), il secondo invece è a mio avviso il vero e unico collante culturale del nostro Paese. Non tanto ovviamente nelle ricette, talmente differenti che è più simile un piatto indiano a uno della zona Nazca che una bagna càuda a una panella fritta, ma proprio nella cultura. In Italia cibo e comunità sono quasi sinonimi. Il cibo è fattore accomunante. La ricetta è una formula misteriosa aperta solo agli eletti, a quelli che sono "famiglia". E talvolta nemmeno a loro. È segreto da custodire, ma i cui esiti vanno condivisi con la comunità, pena la perdita di senso del lavoro stesso, la maledizione del cielo e anche la furia di qualche strega che - si sa - infesta sovente le cucine. Senza cibo non si dà l'Italia. Ecco come la vedo.

Non che in Svezia non si mangi o che il cibo non abbia una valenza sociale, tutt'altro. Ma le differenze sono enormi. Qui manca ad esempio la ritualità scandita dalla sequenza delle portate, avendo loro un antipasto e un piatto principale e basta. Le ricette danno l'impressione di essere meno "personali". A tavola si fa conversazione, ma manca la sacralità del cibo. Spesso manca il silenzio. A volte ce n'è troppo.

Sono di certo differenze culturali, ma si percepisce un'atmosfera diversa anche nei ristoranti svedesi. Non esiste la "bettola". Il piatto dev'essere sempre strapieno di cento ingredienti, la cucina complessa, sovente esagerata. Quello che fanno correttamente nella grafica, cioè togliere roba per essere eleganti, se lo perdono per strada in cucina. In un unico piatto si riescono a contare anche 30 ingredienti diversi, spesso male assortiti o accoppiati senza criterio, quando con 3 sarebbe venuta fuori un'ottima pietanza. Gli svedesi sono molto volenterosi e si impegnano sul serio (alcune loro pietanze semplici sono ottime, come le zuppe di funghi), ma è evidente che in un Paese che ha come piatto nazionale un tramezzino con gamberetti e maionese e dove cucinano pizza al pollo, un italiano tenda a sentirsi un attimo perduto.



Quindi, date le premesse, per il compleanno di Ilana abbiamo deciso di cucinare a casa due piatti tipici italiani (lei ha cucinato, io ho guardato, se no che italiano sarei :D). E devo ammettere che questa parmigiana di melanzane e questa mozzarella in carrozza sono venute divine, ma soprattutto che, ricreando nella nostra microfamiglia la tipica situazione da commensali italici in festa, ci siamo sentiti veramente degli emigrati tricolori, sazi e nostalgici.


Se solo avessimo avuto melanzane siciliane e un paio di mozzarelle d'Aversa...


P.S. Come esempio dell'incredibile cultura alimentare italiana, ho letto ieri che la mozzarella in carrozza sarebbe stata inventata come modo per riciclare la mozzarella ormai non più freschissima e il pane raffermo...

lunedì 7 febbraio 2011

Il bricolage dell'alcool

Che gli svedesi abbiano un problema con l'alcool è cosa nota. Ne ho già parlato in un altro post e la situazione non è che sia cambiata. Per dirne una, appena si fanno degli esami medici viene sottoposto all'aspirante sano (che se magari s'è preso solo una storta alla caviglia) un questionario per capire quanto alcool egli sia solito assorbire nella sua giornata media. E se si esce il sabato o la domenica mattina i marciapiedi sono dei pascoli di vetri rotti e carcasse di lattine.
Personalmente penso che la Svezia per risolvere il problema della peggiore delle droghe in libero commercio, dovrebbe adottare dei sistemi drastici e anche dolorosi, che vorrebbero dire probabilmente sacrificare parte di una generazione, per estirpare però il problema in modo radicale. Ma queste soluzioni sembrano non far proprio parte del modus operandi scandinavo e - per la verità - di nessun governo che basi il suo consenso sui voti che riceve. Quindi temo che le cose andranno avanti così praticamente per sempre. Con chi si batte per affrontare il problema e la maggior parte della gente che lo considera un'esternalità della propria cultura.


Come spiegavo nell'altro post, uno dei sistemi per frenare la diffusione dell'alcool individuati dagli illuminati governanti del regno, è stato quello di decidere di vendere il prodotto solo in luoghi di proprietà statale all'uopo adibiti (i systembolaget, appunto), che il sabato chiudono alle 15 e la domenica non aprono proprio. In coppia con questo va citata la fortissima pressione fiscale cui sono soggetti i superalcolici. Questi provvedimenti dovrebbero scoraggiarne l'acquisto nella popolazione, ma la storia dice che hanno rappresentato un fallimento completo. L'alcool è infatti una droga e come tale spinge l'utente al consumo compulsivo. E anche se si arriva ovviamente solo in rari casi agli estremi della dipendenza, è comunque in tutte le altre occasioni un piacere e un "fatto culturale" che in ogni caso verrà acquistato. Aumentarne il prezzo non significa perciò che ne calerà l'uso, ma solo che una quota-risorse sempre maggiore (propria o peggio della famiglia) verrà destinata dal consumatore al suo acquisto, con tutte le ripercussioni sociali immaginabili. Il venderli in centri "appositi", poi, non limita certo le possibilità di accesso al prodotto, anzi, se possibile le incrementa. Sapendo infatti di poterlo acquistare solo fino a una certa ora del sabato e in un solo luogo, i ragazzi svedesi tendono a farne delle scorte eccessive, finendo per consumarne più di quanto non farebbero se potessero scegliere come e quando usufruirne con meno stress.

Inoltre, la "proibizione" sociale dell'alcool, come accade anche per altre droghe, stimola a mio avviso solo la sua percezione come "prodotto borderline", attirando quindi l'attenzione e la voglia dei giovani consumatori alla ricerca della loro indipendenza. Un'indipendenza che paradossalmente trovano alla fine nella reiterazione dei più malsani comportamenti dei genitori. Sarebbe auspicabile a mio avviso una graduale integrazione consapevole dell'alcool nella cultura quotidiana svedese (come avviene in Italia da sempre, in cui il vino è proprio parte della cultura e non a caso anche della religione) per liberarlo dalla sua portata eversiva.

Effetto di tutta questa atmosfera che circola attorno agli alcolici, sono questi prodotti incredibili che ho trovato in libera vendita in un supermercato, qui a Lund.



Sono praticamente delle bottiglie mezze vuote, con dentro solo qualche decilitro di liquido sciropposo colorato, pronto a diventare... un superalcolico! L'etichetta dice di aggiungere mezzo litro d'acqua e mezzo litro di alcool puro, agitare e consumare.
Ce n'è per tutti i gusti: wisky aromatizzato, Irish cream, vodka alla vaniglia, cognac alla pera, un non meglio precisato "estratto italiano", e decine ancora.
Sinceramente è difficile capire se di fronte a uno scaffale del genere si debba ridere o piangere. Il tragicomico pirandelliano non ha mai trovato manifestazione più alta.

Vedere un uomo che acquista queste bottiglie e poi le riempie di uno scadente spirito insieme a dell'acqua, per estrarne una bevanda sicuramente di pessima qualità e in ogni caso troppo costosa e ancora più dannosa di un normale rhum, è veramente una scena angosciante. Angosciante e clamorosa cartina di tornasole di certe politiche di contenimento che spingono nella direzione esattamente opposta a quella desiderata.

Chi viene in Svezia non s'aspetti di trovarsi comunque di fronte orde di alcolisti che vagano senza meta per le città. Ma se viene invitato a una festa di ragazzi si prepari a caricarsi un paio di casse di Spendrups :)

venerdì 28 gennaio 2011

HUSKY... HIKE!

Per quanto ancora la mia mente sia abbagliata dal ricordo, devo ammettere che la nostra sortita ad Abisko, nel nordissimo della Svezia, non ha significato per noi solo aurora boreale. A livello di spettacolarità c'è stata almeno un'altra esperienza decisamente degna di nota, per quanto sostanzialmente differente. Un'esperienza fatta di sudore, fatica, peli canini, paesaggi incontaminati e freddo da assideramento subitaneo. Sto parlando della nostra corsa nella nevosa taiga svedese alla giuda di slitte trainate dai cani più esuberanti che la natura ricordi.

L'organizzazione prevedeva lo sfruttamento delle 3-4 ore di chiarore quotidiane (un misto di alba e tramonto senza molti bagliori che si ritagliava affannosamente uno spazio tra le fauci della notte polare) per addentrarci in lande desolate alla guida di questi antichi mezzi di trasporto della cultura sami.

L'idea di condurre una slitta trainata da cani ha sempre friccicato nella mia mente, sin da quando da piccolo fantasticavo sulle storie di Zio Paperone nel Klondike che, al grido "MUSH MUSH", spronava i suoi huskies verso il fiume Yukon alla ricerca di pepite grosse come patate. Abisko mi ha dato la possibilità di sperimentare questa forma antiquata ma efficace di "guida" ed è stata un'avventura sinceramente entusiasmante e per certi versi anche mistica.

Arrivati al campo base (uno spiazzo in mezzo a un bosco), un istruttore vestito come un addetto al carotaggio in una base antartica canadese si è dilungato in spiegazioni sulle modalità di conduzione della slitta, amenità sull'alimentazione dei cani, fondamentali suggerimenti sul corretto abbigliamento polare e ha trovato ovviamente anche modo di bullarsi delle gare che ogni tanto fa, in cui lui e altri pazzi fulminati coprono la notevole distanza di 300km in 12 ore di corsa. Naturalmente in piedi sulle slitte. È pleonastico sottolineare che io di tutti questi discorsi ne abbia persi circa i tre quarti perché, a parte il freddo e il fatto che mi stavo annoiando a morte, la mia attenzione era per lo più rapita dagli sguardi acquosi e sofferenti di quella trentina di cani addestrati al traino delle slitte, in quel momento di pausa legati all'aria aperta e seduti sulla neve. Nelle prime file alcuni di loro tremavano.

Il senso di colpa si era impossessato di me, mentre l'istruttore spiegava con dovizia di particolari quanto l'ambiente fosse adatto per quel tipo di animali e bla bla bla. Le mie preoccupazioni erano già passate dal problema-freddo all'esilità delle povere bestie, che sembravano tutte pelle e ossa, incapaci di trainare un gomitolo in una stanza dal pavimento riscaldato. Come una ganascia, il rimorso di dover costringere quegli animaletti al trasporto di una persona del mio solenne peso più tutta la slitta – e solo per il mio sollazzo – mi stringeva le budella.

Mentre questi pensieri rapivano le mie congelate facoltà cerebrali, l'istruttore aveva finito di ciarlare ed era passato alla fase operativa, spiegandoci il modo di prendere i cani, familiarizzando con loro, e di agganciarli ai tiranti. Quattro cani per slitta, tranne quella di Ilana, che ne aveva otto. Per evitare malignità gratuite, spiego subito che il motivo di questa evidente ingiustizia era il fatto che Ilana avesse furbamente deciso di non guidare, ma di sedersi comodamente nella sacca anteriore – coperta di rudi pelli di renna – e farsi condurre dall'istruttore polare. Una persona 4 cani. Due persone 8 cani. Non fa una piega.

Il momento della partenza era giunto. Tolta l'ancora. Sganciato il freno "hard". Piede lieve sul freno soft e comando di partenza: "HIKE".

... Niente ... i cani si voltano e mi guardano perplessi. Io ripeto "HIKE". Non succede ancora niente. Mi sporgo verso di loro con pugno avanti come fossi al volante sulla tangenziale urlando a un vecchio alla guida di una panda beige a metà delle corsie e loro, capendo l'antifona, si voltano e nello scatto danno uno strappo che rischia di farmi cadere al primo metro.

La corsa era così cominciata e in quello stesso istante tutti i miei rimorsi erano svaniti, perché era evidente come quei cani polari non solo non vedessero l'ora di partire, di correre, di tirare saltellando e ringhiandosi giocosamente a vicenda, ma anche perché sembrava che davvero non ci fosse altro posto dove volessero stare.

La sgroppata procedeva spedita (circa 15km/h) e silenziosa su e giù per le collinette, mentre guidare si rivelava un'operazione non facile. Un misto di andare in motorino, sciare, pattinare e controllare un aquilone, per ciò che concerneva l'imprevedibilità delle mosse degli animali, che richiedevano una guida attenta, dolce ma anche ferma. E soprattutto la guida necessitava – come ci aveva ammonito l'istruttore – di molta empatia. I cani andavano "aiutati". Ora, detto così, può sembrare una frase ecologica new age del tipo "empatizza con l'animale in un unico cosmico...", e invece l'aiuto era molto più prosaico. In salita, infatti, bisognava scendere dalla slitta e spingere insieme ai cani, salvo poi dover saltare sopra appena questi avessero ripreso a tirare come dei forsennati.

La corsa era veramente piacevole, alcune discese sulle lastre ghiacciate mi mettevano un po' d'ansia, ma l'ebbrezza della velocità in quel paesaggio incontaminato, silente e freddissimo, era qualcosa di mai sperimentato prima. Mi godevo la luce che ancora faceva brillare di cristalli azzurri la neve, le curve dolci e la vista della coltre bianca immacolata. Il silenzio del mondo circostante e la gioia dei cani che tiravano, quasi rincorrendosi l'un l'altro e senza dimostrare alcun segno di affaticamento.

Questo fu il mio errore: distrarmi, pensare di essere in salvo. Ma il pericolo era dietro l'angolo. E fu appunto una curva, che mi portò sulla neve fresca, a tradirmi. Persi in un attimo l'equilibrio e – con la mia coordinazione da caciocavallo – non ritrovai più la stabilità, volando in mezzo alla neve. Mentre cadevo però mi rivennero in mente le parole del Comandante: "Prima regola: mai mollare la slitta". Rimasi quindi molto eroicamente attaccato all'infernale bob mentre i cani, incuranti della mia disgrazia, continuavano a tirare a più non posso. Se l'istruttore non ci avesse fermati penso che ora mi starebbero vendendo a tranci al mercato del pesce di Narvik, dopo avermi ripescato in un fiordo.

Rimontato in slitta eravamo pronti a ripartire. E, dopo una curva in cui penso abbiamo toccato i -30°c, commisi nuovamente l'errore di lasciarmi andare alle fantasticherie sul paesaggio da sogno. Secondo errore e – ovviamente – seconda caduta. Solo che stavolta persi anche la presa della slitta, spiaggiandomi ineluttabilmente nel gelo della neve fresca.

Dopo due ore in tutto eravamo tornati indietro al campo base sani e salvi. Il buio stava già per inghiottire il bosco e i cani si preparavano all'uscita serale, in cui nell'oscurità più totale sarebbero andati ad accompagnare dei coraggiosi avventori alla caccia dell'aurora. A quel punto non volevamo e potevamo far altro che salutare i fantastici animali, abbracciarli e augurargli di continuare a divertirsi correndo nella neve. Improvvisamente, gli huskies che vivono in un appartamento di piazza di Spagna con le loro ricchissime padrone non ci sembravano più tanto da invidiare...

Per un po' di giorni ho gongolato alla sensazione di sentirmi come Zio Paperone nel mitico Klondike. Prossimo obiettivo: tuffarmi come un pesce baleno in un mare di monete d'oro.